La depressione e i disturbi depressivi sono sempre più diffusi tra la popolazione generale, con una prevalenza maggiore tra le donne. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha stimato che circa il 30% della popolazione soffrirà, durante l’arco di vita, di un episodio depressivo lieve, e il 20% di un episodio depressivo moderato. Tale percentuale sarà purtroppo destinata a crescere e a far aumentare il primato della depressione rispetto agli altri disturbi psichiatrici e non solo, tanto che si stima che tra 20 anni la depressione sarà seconda solo alle malattie cardio-vascolari.
I sintomi depressivi, intesi come reazioni ad eventi di perdita (morte, separazione) o come reazioni ad altre patologie psichiatriche come i disturbi d’ansia (ad esempio “Sono un fallito perché non riesco più ad avere una vita sociale a causa degli attacchi di panico”), sono più frequenti tra i giovani di età compresa tra i 20 e i 30 anni e nelle persone anziane (oltre i 75 anni), mentre il disturbo depressivo maggiore, che è invece un disturbo primario, ha invece una frequenza maggiore tra i 25 e i 44 anni.
Per porre diagnosi di Disturbo Depressivo Maggiore è necessaria la presenza di specifici sintomi che caratterizzano un Episodio Depressivo Maggiore della durata di almeno 2 settimane. Per la diagnosi è necessario anche un solo episodio caratterizzato da 5 o più dei seguenti sintomi, di cui almeno uno dei sintomi è caratterizzato da 1) umore depresso o 2) perdita di interesse o piacere.
La depressione è caratterizzata da un abbassamento del tono dell’umore e/o dalla perdita di interesse o piacere per tutte quelle attività, di svago, lavorative o relazionali, dalle quali la persona traeva prima benessere e giovamento. Tale alterazione dell’umore dev’essere stabile e persistente e non un’alterazione transitoria. Chi è depresso lo è per gran parte della giornata e per più giorni continuativi: mentre all’inizio degli episodi depressivi è possibile rintracciare dei fattori scatenanti, come la perdita di una persona cara o la perdita del lavoro, successivamente i sintomi depressivi tendono a manifestarsi senza una causa apparente.
I sintomi della depressione coprono un’ampia gamma di possibili risposte somatico-affettive e cognitive. Siamo spesso portati a pensare che chi soffre di depressione sia una persona ormai completamente ritirata dalla vita sociale, sola, che passa tutto il giorno a letto e non ha più alcun interesse a curare il suo aspetto o l’ambiente in cui vive, triste, melanconica, che piange e si dà colpe o le dà al mondo: questo è vero per le forme croniche ma la depressione è fatta di infinite sfumature che si muovono lungo un continuum di gravità, dalle forme lievi a quelle più severe. Essere depressi può significare anche soltanto non avere le forze o l’entusiasmo per fare qualcosa e non necessariamente essere melanconici e tristi. Possiamo quindi essere depressi senza neanche accorgercene e scambiare le manifestazioni somatiche della depressione (perdita di energie, aumento o diminuzione dell’appetito, aumento o diminuzione del sonno, etc…) come esperienza normale e comune di stress o stanchezza.
Tuttavia, è opportuno distinguere la tristezza dalla depressione: la tristezza è un’emozione e come tale tutti noi la proviamo svariate volte nell’arco della vita: siamo tristi se siamo bocciati ad un esame a cui tenevamo tanto, e pensiamo che sia tutta colpa nostra perché studiando avremmo sicuramente preso un bel voto; siamo tristi ogni qual volta sperimentiamo una condizione di dolore psicologico oppure ogni volta che qualcosa ci ferisce e, in qualche modo, intacca la stima che abbiamo di noi o degli altri. Tutto questo è normale, è un segnale che ci avverte che qualcosa non va e quello che facciamo è reagire: la prossima volta studieremo di più in vista dell’esame. Diventa un problema quando non riusciamo ad uscire da questo stato e iniziamo a pensare di meritarcelo, che siamo dei falliti, che non valiamo nulla e che non riusciremo a concludere mai nulla nella vita.
Il modello cognitivo sviluppato a partire dalle prime concettualizzazioni di Beck, rispetto al DSM-IV-tr, che elenca soprattutto i sintomi somatico-affettivi della depressione dà molta importanza alla componente cognitiva della depressione (sentimenti di auto-svalutazione, di colpa e punizione, mancanza di autostima, critica di sé o degli altri). Il mondo cognitivo della persona depressa inizia così ad avere un riconoscimento importante: i pensieri sono alla base dello sviluppo della depressione e dei circoli viziosi.
Ora, proviamo a capire cosa accade nella mente della persona depressa.
Esperienze ripetute in cui ci sentiamo dei falliti, di non valere nulla, iniziano a risuonarci nella mente; sono pensieri così distanti da noi, sembrano provenire dall’esterno, di solito non ci sono nella nostra mente e ora, prepotentemente, fanno eco nei nostri pensieri e ci dicono: “Non vali nulla, smettila tanto è inutile, non combinerai mai nulla di buono nella vita, è tutta colpa tua se ora sei solo e ormai non puoi farci nulla! Gli altri ti trovano noioso, inutile, ti giudicano male e a loro non interessa nulla se tu stai male quindi è inutile che chiedi conforto! E sarà sempre peggio, il futuro non ti riserva nulla di buono!”
Naturalmente sono pensieri che prendono forma e non voci deliranti, e hanno il nome di Pensieri Automatici Negativi. Tali pensieri si attivano automaticamente e portano la persona depressa, come abbiamo visto, a sviluppare pensieri negativi su di sé (sono un fallito, non valgo nulla) sul Mondo (gli altri non mi apprezzano, mi giudicheranno male, non mi vogliono bene) e sul Futuro (le cose non cambieranno mai, sarà sempre peggio). L’insieme di questi pensieri automatici negativi è chiamata Triade Cognitiva.
Oltre alla presenza di un’organizzazione di personalità peculiare, rappresentano importanti fattori di rischio:
Non tutte le persone che hanno una vulnerabilità biologica e/o ambientale sviluppano poi un disturbo depressivo. Questo perché lo scompenso dipende anche dai fattori di personalità e dagli schemi interpersonali patogeni che si sviluppano a partire dalle esperienze infantili.
Nel caso di un grave disturbo depressivo, le conseguenze a cui si va incontro sono notevoli: si ha una compromissione dell’attività lavorativa e socio-relazionale, con riduzione drastica delle uscite, fino alla totale scomparsa dell’attività sociale. Nel 15% dei casi, soprattutto di depressione maggiore, si arriva al suicidio.
Quando ci troviamo di fronte ad una persona depressa, gli scenari di cura che si aprono sono diversi e le strade che il clinico decide di intraprendere dipendono dalla gravità della depressione: possiamo, ad esempio, optare per un trattamento farmacologico in congiunzione ad una psicoterapia, quando c’è un alto livello di gravità.
Per quanto riguarda la psicoterapia cognitivo-comportamentale sono fondamentalmente tre gli approcci utilizzati: il trattamento cognitivo-comportamentale classico per la riduzione della gravità dei sintomi, la terapia metacognitiva interpersonale per il cambiamento delle strutture di personalità alla base dello sviluppo della sintomatologia e la mindfulness per la prevenzione delle ricadute.
Il trattamento cognitivo-comportamentale classico ha come obiettivo primario la riduzione dei sintomi depressivi. Per fare questo innanzitutto il terapeuta procede, dopo un’accurata valutazione psicodiagnostica, a formulare il caso clinico: questo lavoro è condiviso costantemente con il paziente e consiste nella ricostruzione dei sintomi, dell’evento che li ha innescati, dei meccanismi che alimentano il disturbo depressivo e dei fattori di vulnerabilità che ne sono alla base. Lo schema di funzionamento, diverso da persona a persona, che ne risulta viene poi condiviso con il paziente.
Durante la terapia, al paziente sono assegnati degli homework (diario settimanale e compiti graduati) allo scopo di spezzare i circoli viziosi che mantengono il disturbo, in particolare i pensieri automatici negativi e i bias cognitivi.
La seconda fase della terapia si concentra sui fattori di vulnerabilità: a questo scopo la Terapia Metacognitiva Interpersonale permette di rendere il paziente consapevole degli schemi interpersonali patogeni e successivamente operare un cambiamento degli stessi.
La Mindfulness-Based Cognitive Therapy (MBCT) viene utilizzata per la prevenzione delle ricadute.
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